I pesci sono muti ma i pescatori no, ecco perché oggi vogliamo spiegare le ragioni di questa nostra presenza. Sono trascorsi più di centocinquant’anni da quando i pescatori hanno ripopolato le acque interne italiane con trote fario, trote iridee, coregoni lavarelli, salmerini alpini; pesci considerati pregiati in modo pressoché unanime non solo dai pescatori ma dall’opinione pubblica in generale.
In questo lunghissimo periodo storico – periodo preceduto da altri secoli dove già veniva esercitata la pratica dell’acquacoltura nelle aree montane, i cui esordi sembrano riconducibili al monachesimo – questi pesci hanno supportato l’economia del paese, in particolare nelle zone alpine, prealpine ed appenniniche. Nei primi decenni del secolo scorso come essenziale apporto alimentare e poi – mano a mano che l’economia del paese cresceva – come importante elemento di sostegno alla pesca sia sportiva che professionale, ma anche come forma di promozione e sviluppo sia commerciale che turistico.
Oggi, secondo i dati della FIOPS si stima che in Italia i pescatori siano circa 2 milioni, con 15.000 negozi che trattano articoli inerenti questa attività sportiva. Il fatturato annuo del comparto pesca, compreso l’indotto, ammonta a circa 2,8/3 mld di euro. Si contano 600 impianti di itticoltura che occupano c.ca 6.000 persone che con l’indotto diventano 18.000.
Un lavoro svolto nel pieno rispetto della legislazione vigente e senza che nessuno avesse mai sollevato problemi riguardo alla diffusione di queste specie, sempre considerate un elemento di valorizzazione ambientale all’interno delle loro tipiche zone di presenza, tanto da essere utilizzati come indicatore della condizione ecologica delle aree di diffusione.
Le operazioni di ripopolamento hanno consentito di rivitalizzare moltissimi corsi d’acqua distrutti da violente alluvioni che ne avevano compromesso ogni forma di vita. Hanno contribuito anche alla diffusione di aggregazioni sociali e culturali a tutti i livelli di età, con benefici psico-fisici individuali e collettivi ampiamente riconosciuti.
Oggi invece, per effetto di incomprensibili scelte regolamentari e burocratiche introdotte dal Ministero della Transizione Ecologica e presentate come attuative di inequivocabili risultanze scientifiche, questi pesci di fatto non potranno più abitare le acque interne italiane, se non in seguito all’ottenimento di una deroga frutto di indagini del rischio tanto cervellotiche quanto inutili e costose per le casse pubbliche nazionali.
Si tratta di scelte per nulla condivise, né dalle amministrazioni locali e regionali (l’ultima bocciatura è quella della Conferenza delle Regioni riunitasi il 29 ottobre scorso a Mazara del Vallo) né dalle principali associazioni di categoria, salvo alcune sigle rappresentative di un ambientalismo fine a se stesso o di altri soggetti privatistici portatori di specifici interessi economici indiretti. Scelte lacunose anche riguardo agli aspetti tecnici e scientifici chiamati a giustificarne le fondamenta teoriche, mancando un reale contraddittorio che tenga conto della complessità degli interessi che convergono attorno al tema della gestione delle risorse ittiche nelle acque interne.
Proprio per queste complessità è indispensabile un intervento della politica che riesamini ogni aspetto di questa vicenda; ed è per questo che tutte le sigle della pesca lombarda insieme a molte altre riconducibili all’area nazionale alpina sono riunite qui a Milano, confidando che la politica faccia la parte che doverosamente le compete.
F.I.P.S.A.S. FEDERAZIONE ITALIANA PESCA SPORTIVA E ATTIVITA’ SUBACQUEE